In ottemperanza al decreto firmato il 4 marzo 2020 dal Presidente del Consiglio dei Ministri, contenente le misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Coronavirus sull'intero territorio nazionale, sono sospesi al Teatro Dehon tutti gli spettacoli e gli eventi aperti al pubblico fino al 3 aprile.
La Direzione e lo staff del Teatro Dehon sono al lavoro per definire, con la massima tempestività, le conseguenti modifiche al calendario.
Non appena possibile, il Teatro Dehon comunicherà modalità e date di recupero degli spettacoli sospesi.
Di seguito il calendario aggiornato degli spettacoli con le nuove date.
Gli spettacoli non presenti nel seguente elenco sono rinviati a data da destinarsi.

STAND UP COMEDY - Martedì 21 Aprile | ore 21.00 - annullata anche la nuova data
MORTA ZIA LA CASA È MIA - annullato
DIO ARRIVERÀ ALL'ALBA - Domenica 3 Maggio | ore 18.00 - annullata anche la nuova data
PANPERS - Sabato 16 Maggio | ore 21.00
ERCOLE (Fantateatro) - Venerdì 1 Maggio | ore 16.00 e 17.30
LA STORIA DEL TEATRO con Marco Poli - annullate le date del 16 marzo e 20 aprile
IL SOPRANO CHE NON SAPEVA CANTARE - annullato
IL BOOM con Max Paiella - annullato
GIACOBAZZI&PIZZOCCHI - Domenica 10 Maggio | ore 21.00
Quest'ultima data è in sostituzione di Venerdì 8 Maggio.

Gli abbonamenti e i biglietti già acquistati saranno validi per le nuove date.
La biglietteria del Teatro rimarrà chiusa fino al 3 aprile come da ultimie disposizioni dei decreti del Consiglio dei Ministri.

Info: 051 342934 | Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Gli uffici sono aperti da lunedi a venerdì, dalle 9 alle 13 e dalle 14 alle 18, e sabato dalle 9 alle 13.

(Lettera aperta ad un pubblico che non c'è)

Cari Spettatori,

permettete che mi rivolga a voi direttamente, senza preamboli né formalismi, così come si fa tra intimi. Il volgere degli eventi attuali impone purtroppo, almeno da questo punto di vista, l'accorciamento delle distanze; esige che si vada al sodo; richiede nervi saldissimi, certo, ma anche (e forse soprattutto) schiettezza e sincerità.

La portata della crisi che ci troviamo a fronteggiare non trova paragoni possibili nei tempi recenti. Essa investe infatti ogni ambito della vita associativa: dall'istruzione al mondo del lavoro, dai settori economici sino al senso della spiritualità, dalla grande politica ai semplici e quotidiani rapporti interpersonali. 

Non credo sia eccessivo preconizzare come questa epidemia preluda ad una ridefinizione complessiva dei valori che innervano una società europea ed italiana destinata ad uscire dall'emergenza profondamente trasformata fin nelle sue basi. Il nocciolo della questione è però il seguente: come sarà possibile governare tali mutamenti senza perdere il senso stesso della nostra individualità umana e culturale? Ci troviamo disarmati e quasi impotenti dinanzi ad un'insidia invisibile eppure pericolosissima.

E non mi riferisco al Coronavirus, bensì al nichilismo che rischia di avviluppare tutti noi, destinati come siamo agli arresti domiciliari sine die, e ad un'ancor più brusca "virtualizzazione" della vita... almeno per il momento, perché - come auspichiamo - le cose potrebbero in futuro volgere al positivo.

Mi trovo oggi ad osservare la realtà da una posizione paradossale, che neanche la mia fantasia di commediografo e autore avrebbe potuto immaginare per i personaggi che riempiono la scena. Sono direttore di un teatro vuoto: senza pubblico, senza attori, senza macchinisti, senza personale. Senza niente.

In compagnia dell'unica certezza di una chiusura imposta ex lege, giustificata ed opportuna (ma non per questo meno dolorosa), destinata a protrarsi per settimane e forse per mesi.

In compagnia di tutto ciò e di un pugno di compagni di avventura, tanto matti da essersi imbarcati insieme al sottoscritto sulla nave perigliosa - stultifera navis! - del Teatro, e così incoscienti da non scenderne neppure in un momento come questo! [Fossi un saggio indiano od un filosofo, mi verrebbe da chiedermi se sia più folle il folle stesso o i folli che lo seguono... Ma, appartenendo alla famiglia dei guitti, certe cose non riescono davvero a sorprendermi: pratichiamo un'Arte antica, ed ugualmente arcaicizzanti  sono i rapporti di fedeltà che ci legano gli uni agli altri].

In compagnia delle tante telefonate degli spettatori (il nostro pubblico) - autentica teriaca per il mio umore tendente al nero - che mi chiedono quando riapriremo la sala; quando si potrà tornare a teatro; quali spettacoli potranno essere recuperati (e quali, purtroppo, non lo saranno). Che mi domandano degli appuntamenti per i ragazzi di Fantateatro, del teatro brillante e di quello meno brillante... Voci senza volto danno consigli, che esprimono solidarietà, che avanzano proposte... Che mi fanno sentire - nel mio ruolo di uomo di spettacolo, e forse di cultura - meno inutile ed inservibile di quanto questo mondo globalizzato e senz'anima vorrebbe...

Ed ecco che un dubbio, subitaneo e folgorante come ogni intuizione dovrebbe essere, mi assale: forse questo castigo numinoso un suo recondito senso ce l'ha: quello di far brillare per assenza ciò che noi teatranti rappresentiamo, nel quadro di un sistema che - per dirla parafrasando un grande inattuale - parrebbe non volerci più. Destino bizzarro, ma forse non insolito per un'Arte che fu sacra, quello di riaffermarsi mediante la propria scomparsa.

Molti anni fa, osservando un'eclissi dalle scogliere normanne di Fécamp, intuii che quel formidabile  fenomeno astronomico altro non fosse che un grandioso e divino spettacolo messo in scena ed offerto al pubblico per esaltare, celandola, la maestosità del Sole. Oggi ravviso qualcosa di similare, negli accadimenti che sconvolgono l'Italia (terra dei tori) e l'Europa (guarda caso proprio da un toro rapita!): un simbolico ammonimento, lanciato dall'Olimpo e diretto agli abitanti del Vecchio Continente; una pressante esortazione a tornare a forme di socialità vera; a riscoprire le radici del presente, curandone la germinazione per il futuro.

Quando tutto questo sarà finito, ed il Coronavirus verrà confinato al novero dei brutti ricordi, forse guarderemo diversamente alle meraviglie dell'elettronica ed alle suggestioni di un mondo 2.0, desiderando ritrovare invece il piacere di stare insieme davvero (e non attraverso la mediata virtualità di un sistema informatico). Se così sarà, se questa disgraziata occorrenza servirà a rinsavire dalla hybris tecnologica, rimettendo al centro del reale l'Uomo ed i suoi bisogni autentici, dei quali il Teatro si fa espressione più autentica, allora si potrà affermare - ricorrendo alla popolare saggezza - che non tutti i mali vengono (solo) per nuocere. 

Sperando di poter presto tornare a servire Voi e il Teatro, vi abbraccio calorosamente.

Piero Ferrarini

Non so se possa esistere nulla di più malinconico della luce di un'alba d'inverno sul litorale romano, dove la memoria della Dodecapoli si sfalda nelle miserie della speculazione edilizia. Di certo, Flavio Bucci non avrebbe potuto scegliere migliore ambientazione per mettere in scena l'ultimo suo pezzo di bravura, quello che da molto tempo - da sempre -, con maniacale perizia e scrupolo degno d'un grande artista andava preparando.

Come i grandi scacchisti e i guitti sanno bene, ogni opera si compone di tre momenti, distinti eppure interdipendenti tra loro: l'apertura, lo sviluppo ed il finale. Si può essere players provetti in una qualsiasi delle tre fasi, ma solo i Maestri riescono a legarle tra loro fino a renderne impercettibili le giunzioni, abbattendo i confini interni e ridefinendo la grammatica stessa del gioco (o del Teatro, ma è la stessa cosa). Solo chi padroneggia i meccanismi profondi, avendone intimamente comprese od intuite le regole - che proprio per questo cessano di essere prescrittive, e divengono puramente accessorie -, restituisce Unità alla semplice somma delle parti.

Flavio Bucci, del quale, al pari di chiunque abbia incrociato la sua strada, ho avuto l'onore di conoscere ciò che lui ha consentito conoscessi di sé, stava alla scena come Bobby Fischer stava alla scacchiera: talenti naturali, assoluti, purissimi e, per così dire, allo stato brado.

Ma, del resto, è forse anche soltanto ipotizzabile un genio addomesticato?

Talenti, mette conto sottolinearlo, anche per sfatare lo stupido mito della sregolatezza creativa, oggi purtroppo di gran moda (e utile a gabellare come "artisti" nullità burocratiche o viziosi irrecuperabili), affinati da un vita di passione e di applicazione all'Arte; perfezionati da una dedizione così totale da non badare alla logica, al buon senso od alla salute. In altre parole, talenti totali. Vite totali per un'Arte totale. Sfide viventi al conformismo ed al buon senso borghesi, nel loro essere al di là della contingenza generica dei "valori" dominanti; e del resto, quando si attinge il sublime e l'Eterno appare a portata di mano, ogni concetto squisitamente morale scolora. Evapora semplicemente. Svanisce.

Al pari di Fischer, anche in Bucci il talento ebbe a manifestarsi precocemente; non sempre l'enfant prodige lascia spazio al genio, ma è altrettanto vero che quasi sempre quest'ultimo si esprime in forma esplosiva, immediata e non progressiva. E se il moccioso di Brooklyn a quindici anni era già campione USA ed otteneva la norma di Grande Maestro Internazionale, strapazzando sulla scacchiera giocatori fortissimi come Reshevsky o Byrne, Flavio Bucci a venti o poco più già recitava come protagonista con lo Stabile di Torino, e veniva notato da Vittorio Gassman. E se a ventidue anni l'americano era Campione del mondo, a trenta il Nostro aveva già dato la sua interpretazione finale, quella che ogni attore sogna - sovente invano - per l'intera carriera. Quella che ti consegna alla Storia. Quella di Ligabue.

Per entrambi, dopo sarebbe iniziato l'invitabile declino: quando hai raggiunto la vetta insuperabile all'età in cui gli altri, i normali esseri umani, appena si affacciano alla vita, cosa ancora può serbare il futuro? L'esistenza diventa un carcere, un lungo, tedioso reiterare - nel più fasto dei casi - il meglio del compiuto; una snervante attesa della fine, del passo decisivo per unirsi al corteo di Dioniso, negli altri.

E poiché gli altari abbandonati sono popolati da demòni, e il daimon bizzoso si accanisce spesso con maggior foga su coloro che più ha amato, il vuoto di un'esistenza ridotta alla realtà inferiore di distanza geografica dalla fine, poiché il Fine è ormai relegato alla regione del Passato, si riempie invariabilmente di scorie: alcool, droga, "donne" (il femminile ordinario, appannaggio del Genio della specie - come avevano intuito Schopenauer e Weininger - è quasi sempre precluso al talentuoso, la cui solitudine è al tempo stesso prerequisito e conseguenza del proprio status), depravazioni varie, diventano il corollario di vite la cui fiamma autentica è ormai già spenta.

Elementi accessori, insomma. Sbavature trascurabili che finiscono però, nel volgare Kali Yuga attuale, per intessere la ricca aneddotica destinata a sostanziare il ricordo dei Grandi, almeno sul breve periodo; odioso mix di livore da impotenti e di meschina propensione plebea a compiacersi delle altrui debolezze. Tempi barbarici, popolati da un'umanità così miserabile da non poter tollerare neppure l'immagine della Bellezza! Ecco perché ho scelto di evitare qualsiasi ricordo personale, in questo mio piccolo frammento, per ricordare Flavio: per non portare, neppure involontariamente, acqua al mulino della maldicenza, di certo da domani più attivo che mai nel compiere il suo squallido "lavoro".

Voglio però chiudere queste note con una considerazione forse non priva di interesse. Il corpo di Fischer muore a Rejkyavik, nella Thule estrema d'Occidente, reificando nei ghiacci d'Islanda il fuoco del suo gioco feroce, da gatto col topo, di torri, alfieri e pedoni; con la dignità di un Re senza Regina. Flavio Bucci, a suo modo esule in patria, scompare a poca distanza dalla proda di Enea, volgendo forse l'ultimo sguardo dei suoi occhi mortali verso Ovest, al mare dei Tirreni e, più oltre ancora, a quell'Avalon celeste del Teatro ove oggi si brinda al suo arrivo.

Piero Ferrarini

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Sito ufficiale del Teatro Dehon di Bologna

Centro Culturale Teatroaperto a R. L. – Teatro Dehon - Teatro Stabile dell’Emilia-Romagna
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Orari Uffici: Dal lunedì al venerdì | ore 9-13 e 15-18
Biglietteria: Dal martedì al sabato | ore 15-19